Il Governo sta preparando la Legge di Bilancio per il 2023 e tra le ipotesi che sta valutando ci sarebbe un’imposta sulle consegne a domicilio, che è stata subito soprannominata “Amazon tax”. Una decisione potrebbe essere presa nei prossimi giorni e oggi non si conoscono ulteriori particolari, tra cui il principale: come sarebbe applicata la nuova imposta.
Alcuni quotidiani riferiscono fonti di Palazzo Chigi secondo cui l’imposta colpirebbe le consegne svolte con veicoli “non ecologici” e avrebbe soglie di fatturato che ne restringerebbe l’applicazione alle imprese più grandi, escludendo le piccole e medie imprese di commercio elettronico.
Altre indiscrezioni riguardano l’esclusione dei generi alimentari o cibi pronti e parlano di un’aliquota piuttosto elevata, tra il dieci e il venti percento. Ma chi la pagherebbe? La filiera del commercio elettronico comprende diversi operatori: il venditore, la piattaforma telematica e la filiera logistica (che può comprendere diversi livelli di appalto nel trasporto). Sicuramente l’importo sarebbe poi scaricato sull’acquirente finale, visto che i margini della logistica in questo comparto sono molto bassi.
Un aspetto critico del provvedimento riguarda proprio il fatto che riguarderebbe le consegne con veicoli “non ecologici”. Paradossalmente sono proprio le multinazionali del commercio e della logistica ad averli in maggior numero, mentre le piccole e medie imprese e i padroncini che lavorano in subappalto ne hanno ancora pochi. Così, potrebbero essere loro a pagare l’imposta, invece di Amazon (che usa già tremila furgoni elettrici, numero che raggiungerà i 10mila entro tre anni).
Ancor prima dell’elaborazione del provvedimento, il Consorzio Netcomm lo ha già criticato. Il 19 novembre, il suo presidente Roberto Liscia ha affermato che l’imposta “non tiene conto del reale impatto economico e ambientale di questo settore sull’intera economia del nostro Paese”, aggiungendo che “porre un freno a un settore strategico come quello del digitale, che già sta subendo un rallentamento a causa dell’inflazione e dell’aumento dei costi tecnologici e di gestione dell’intera rete, significherebbe minare la competitività dell’Italia sul piano internazionale”.
Secondo Liscia, l’imposta colpirebbe soprattutto le piccole e medie imprese “che hanno trovato nel digitale, in questi ultimi anni, una risorsa strategica per lo sviluppo del loro export, raggiungendo consumatori in tutto il mondo grazie all’e-commerce”. Una ricerca commissionata da Netcomm mostra che il commercio elettronico genera ricavi per circa 58,6 miliardi di euro e incide per il 19,2% sulla crescita di fatturato del totale delle attività economiche italiane.
Sull’impatto ambientale, Liscia aggiunge che il commercio elettronico “consente di ridurre da quattro a nove volte il traffico generato dallo shopping nei negozi e le consegne ai clienti rappresentano lo 0,5% del traffico totale nelle aree urbane. Inoltre, secondo il rapporto della società di consulenza Oliver Wyman risulta che l’eCommerce genera da 1,5 a 2,9 volte in meno di emissioni di gas serra”.
Il presidente di Netcomm conclude che “stiamo parlando di una rete che, solo nel 2019, contava 678 mila imprese e oltre 290 mila lavoratori. Oltretutto, in un mondo sempre più multicanale, i negozi tradizionali stessi si avvalgono di servizi di consegna a domicilio e gli effetti di un’ulteriore tassazione avrebbero conseguenze negative anche sui costi della loro attività, oltre che sui prezzi destinati ai consumatori stessi”.