Il terminalismo portuale oggi non è più un grande affare. Alleanze tra vettori marittimi, domanda stagnante, elevati investimenti e gigantismo navale stanno infatti sempre più riducendo i margini di profitto dei terminal container. Il motivo lo spiega un rapporto di Drewry Maritime Research emblematicamente intitolato "Diminishing returns?", dove si legge che investire nei porti oggi non è più così conveniente com'era un tempo. Eppure, fino a qualche anno fa quest'attività era considerata molto profittevole grazie all'elevata domanda di servizi portuali da parte delle compagnie di navigazione, ma anche per le elevate barriere all'ingresso e la concorrenza locale limitata, che si traduceva in margini di guadagno (in termini di Ebitda) compresi fra il 20 e il 45%.
"Fino al 2009 - si legge nel rapporto - le società terminalistiche chiudevano con bilanci in crescita mediamente dell'11% ogni anno mentre, dopo scoppio della crisi finanziaria, la norma sono margini ridotti al 5%. Ciò non sorprende, perché quel ritmo di crescita non poteva durare all'infinito, ma ciò che preoccupa è il recente brusco rallentamento innescato dai cambiamenti politici ed economici in Cina. Nel 2015 la crescita globale di container movimentati nei porti è stata appena dell'1% e nel 2016 probabilmente non andrà oltre il 2,5%. Cosa succederà dunque se la nuova normalità sarà rappresentata da Ebitda dimezzati rispetto agli anni successivi al 2009?".
Un fattore di mercato determinante è il gigantismo navale, che ha portato a una crescita della portata media delle singole navi portacontainer e questo effetto a cascata dalle navi più grandi su quelle più piccole non risparmia nessuno scalo. Tutti i porti del mondo, in un modo o nell'altro, si trovano a dover lavorare navi di dimensioni più grandi rispetto al passato. In un momento di mercato contraddistinto da una domanda di trasporto stagnante, questo si traduce in minori frequenze delle toccate e dei servizi e contestualmente con picchi di movimentazioni più accentuati a ogni singolo scalo di una nave. Per i terminalisti ciò significa maggiori investimenti richiesti, in presenza di una domanda di servizi stabile nella migliore delle ipotesi.
Non solo. La formazione (o la trasformazione) di nuove alleanze sempre più grandi fra vettori marittimi causa ai terminal un minore potere contrattuale di fronte a clienti più complessi e di dimensioni maggiori. Al tempo stesso, però, navi e alleanze più grandi devono scegliere fra un numero ristretto di porti in grado di accogliere le loro richieste e i loro servizi di linea (se non altro per ragioni infrastrutturali, di pescaggio e di attrezzature). Uno scenario in continuo mutamento che subirà ancora nuove trasformazioni in virtù delle acquisizioni e fusioni che prenderanno forma fra i liner.
"La nuova domanda di servizi portuali conduce a terminal più grandi e con maggiore capacità di movimentazione, dunque verso un consolidamento anche fra terminal e fra terminalisti", prosegue il rapporto di Drewry, che precisa: "Questo consolidamento sul versante portuale è complicato e costoso, quindi potrebbe anche non avvenire o richiedere molto tempo per concretizzarsi". Di certo, secondo la società di consulenza inglese, è sempre più complicato per i terminal container ottenere risultati finanziari soddisfacenti in un contesto di mercato fatto di costi crescenti e ritorni non altrettanto importanti.
Drewry, in conclusione, individua quattro possibili scenari futuri. Il primo vede le compagnie di navigazione cooperare in maniera più stretta insieme ai terminalisti per mitigare gli effetti negativi di navi e alleanze sempre più grandi. Il secondo vede i terminalisti decisi a chiedere una tariffa maggiore coerentemente agli investimenti richiesti per accogliere le maxi-navi ma i global carrier, i cui bilanci sono già sotto stress, venderanno cara la pelle.
Il terzo scenario è quello secondo cui i maggiori terminal operator si accontenteranno di redditività più modeste e questa ipotesi porterebbe inevitabilmente all'uscita di alcuni operatori e investitori dal mercato. L'ultima alternativa è quella per cui molti terminalisti decideranno di non attrezzarsi per rimanere al passo coi tempi del gigantismo navale perché i ritorni non giustificano gli elevati investimenti da sostenere. La quarta ipotesi sarebbe quella che metterebbe chiaramente più in difficoltà i carrier, che si troverebbero ad avere una ridotta selezione di scali dove poter mandare le portacontainer di ultima generazione. "Di sicuro - concludono gli esperti di Drewry – l'industria mondiale dei terminal operator si trova a dover prendere delle decisioni perché il trasporto marittimo è arrivato a un punto di non ritorno che richiede precise scelte strategiche".
Nicola Capuzzo
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