Il ministro italiano delle Infrastrutture e dei Trasporti vede con preoccupazione il gigantismo navale e la concentrazione fra global carrier in atto nel settore dei container: "Sono spaventato da questa concentrazione", ha spiegato il ministro al 2° Forum Nazionale sulla Portualità e la Logistica di Livorno, commentando la relazione intitolata "Le sfide globali per il sistema portuale" presentata da Olaf Merk, esperto di portualità e shipping dell'International Transport Forum (organismo parte dell'Ocse).
Delrio ha sottolineato come per effetto di navi portacontainer di dimensioni sempre maggiori i costi totali per i porti aumentino, mentre solo per le compagnie di navigazione scende l'incidenza media su ogni singolo container per effetto delle economie di scala. "Non bisogna scaricare i costi sul pubblico e privatizzare i profitti perché è semplicissimo socializzare le perdite e privatizzare i guadagni", ha precisato il ministro, che ha aggiunto: "Dobbiamo essere in grado di non subire semplicemente l'iniziativa dei grandi gruppi multinazionali, ma offrire noi delle condizioni e porre dei paletti in cui i commerci possano svolgersi". Come intenda muoversi Delrio non l'ha detto, ma un primo passo in questo senso è la razionalizzazione dei progetti di sviluppo infrastrutturali proposti dai vari scali italiani. Insomma non accadrà più che ogni porto possa candidarsi a realizzare cattedrali nel deserto (vedi maxi terminal container) per attrarre le navi di ultima generazione.
Olaf Merk nella sua relazione precedente aveva evidenziato il fatto che con il gigantismo navale i costi di gestione del trasporto dalle banchine all'hinterland aumentano perché le Ultra Large Container Carrier richiedono gru più grandi, dragaggi, consolidamenti delle banchine, nuovi equipaggiamenti nei terminal e miglioramenti delle infrastrutture soprattutto ferroviarie per far defluire rapidamente volumi crescenti di container dai porti.
Secondo l'esperto dell'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), l'ondata di fusioni e acquisizioni in corso ha portato a una concentrazione del mercato che vede le tre nuove alleanze (2M, The Alliance e Ocean Alliance) controllare il 90% della stiva disponibile sul mercato, mentre negli anni '90 questo stesso parametro si attestava al 40%. Di fronte a un'integrazione verticale sempre più evidente fra compagnie di navigazione, terminal portuali e spedizionieri, Merk si domanda se l'attuale modello di sviluppo sia sostenibile per il futuro.
I porti serviti direttamente sono un numero inferiore (non tutti possono accogliere le grandi navi) e anche la frequenza dei collegamenti fra Asia ed Europa è scesa (da 38 a 32 partenze settimanali) con una dipendenza dalle alleanze sempre più marcata (con conseguente perdita di potere contrattuale) per i terminal container. "Basta guardare al caso di Gioia Tauro che dipende solo da un'alleanza (la 2M, ndr) ma allo stesso modo altri scali italiani sono vulnerabili", ha aggiunto l'esperto dell'Ocse, sottolineando come anche i ritorni sugli investimenti portuali (sia per i privati che per il pubblico) siano inevitabilmente più lunghi con l'attuale pressione al ribasso delle tariffe imposta dalle alleanze.
Tutto ciò è sostenibile nel lungo termine? Cosa possono fare i decision maker pubblici? Olaf Merk non ha la bacchetta magica ma intanto suggerisce una ricetta semplice: "Importante è stabilire con chiarezza quali siano i porti di importanza primaria e quali quelli invece secondari". Non tutti, appunto, possono ambire ad accogliere le grandi portacontainer di ultima generazione e gli investimenti a terra che richiedono.
Nicola Capuzzo
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