L'amianto ha colpito anche il porto di Trieste, causando la morte nel dicembre del 2015 di Gino Gruber, un lavoratore che ha lavorato per oltre trent'anni in una cooperativa e deceduto a 71 anni per mesotelioma, ossia una malattia mortale causata dall'esposizione all'amianto. Nella causa civile sorta dopo questa morte, il giudice del Lavoro ha ritenuto responsabile l'Autorità Portuale (ora divenuta Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale) di responsabilità passiva, condannandola a un risarcimento di 645mila euro per i familiari. L'Asp ha annunciato ricorso contro la sentenza.
Gruber era un socio lavoratore della cooperativa Terra, che svolgeva manodopera al porto e durante il suo lavoro scaricò amianto dalle navi provenienti dal Sudafrica. Il quotidiano triestino Il Piccolo spiega che in quel periodo, ossia dagli anni Sessanta all'inizio degli anni Novanta, l'amianto era trasportato in sacchi di carta da 25 chili imbragati a piramide sulle gru. I sacchi potavo facilmente rompersi e i lavoratori non avevano tute o maschere. Durante quel trentennio sono sbarcate a Trieste circa 600mila tonnellate di amianto.
In quel periodo, l'amianto non era inserito nelle tabelle dell'Inail sui materiali ritenuti pericolosi, quindi non era obbligatoria alcuna prevenzione. Però i giudici hanno considerato una comunicazione inviata dal direttore dell'Ufficio del Lavoro Portuale nel 1978 alle associazioni ed enti interessati che la movimentazione dell'amianto presentava dei rischi per la salute, citando esplicitamente il mesotelioma. Il dirigente consigliava maggiori protezioni per la sostanza, ma l'unica prevenzione per i portuali è stata la somministrazione di latte.
Questa è la prima sentenza sull'amianto nel porto di Trieste, ma non la prima in assoluto in Italia. È la seconda nell'Adriatico settentrionale, dopo quella del marzo scorso in Appello per il caso di un lavoratore nel porto di Venezia, morto nel 2005 a 59 anni in circostanze analoghe a quelle di Gruber. Sempre quest'anno, in aprile, il Tribunale di Carrara ha condannato l'Inps a rivalutare la posizione contributiva di sei lavoratori del porto di Marina di Carrara al fine di concedere loro il prepensionamento per esposizione all'amianto.
Restando sul versante tirrenico, nel 2012 è stata condannata la compagnia portuale Pippo Rabagliati di Savona a risarcire due ex soci lavoratori per un totale di 2,4 milioni di euro. Anche in quel caso, la corte di Appello respinse la richiesta di annullamento e nel marzo 2015 confermò la sanzione sostenendo che i lavoratori maneggiarono amianto senza le dovute protezioni durante gli anni Sessanta. In questo caso, i giudici hanno ritenuto unica responsabile la compagnia portuale, escludendo l'Autorità Portuale. Sempre il Liguria, il Tribunale di Genova ha condannato nel gennaio del 2015 l'Autorità Portuale a pagare quasi un milione di euro i familiari di Elio Luigi Pagano, e socio della Compagnia Unica, morto per mesotelioma nel 2008.
Queste sentenze pongono alcune questioni che impegneranno le ASP e le compagnie portuali per i prossimi anni. La prima riguarda la responsabilità, perché i giudici di Trieste, Venezia e Genova ritengono responsabile l'Autorità Portuale per mancata vigilanza sulla sicurezza del lavoro, mentre quelli di Savona imputano l'intera resposanbilità al datore di lavoro, ossia la compagnia portaule. In tutti i casi, questa è una bomba a orologeria che può compromettere le finanze delle Asp e delle compagnie, vista l'entità dei risarcimento e il numero dei lavoratori interessati. Una bomba che può scoppiare a distanza di anni, perché l'incubazione del mesotelioma è lunga e la malattia può manifestarsi anche dopo venti o trent'anni dall'esposizione.
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