Secondo la ricerca di TrasportoUnito, negli ultimi sette anni 25mila autotrasportatori hanno aperto una filiale all'Est, se non addirittura hanno trasferito completamente l'attività. E non si tratta solo di grande imprese, ma anche di quelle ritenute in Italia di media dimensione, ossia con una flotta di 40-50 veicoli. La ricerca precisa anche quali sono i danni per l'Italia di questa massiccia delocalizzazione.
"L'esodo degli autotrasportatori all'Est ha sottratto all'erario risorse economiche quantificabili, nel periodo di sette anni, in oltre otto miliardi di euro fra oneri, imposte dirette, accise sui carburanti e tasse. Ciò senza considerare l'impatto sociale negativo sull'intero comparto dell'autotrasporto, che ha subito la perdita di almeno 120 mila posti di lavoro, ma anche sull'indotto, con la riduzione delle attività delle officine o addirittura la loro chiusura, unitamente a quella dei concessionari di mezzi industriali".
Commentando i risultati della ricerca, il segretario generale dell'associazione, Maurizio Longo, spiega che "queste 25mila imprese testimoniano che l'Italia è ormai definitivamente fuori dal mercato, che ha posto in essere tanti e tali vincoli, ostacoli normativi e burocratici, ma anche forme di pressione non solo fiscale, che rendono il nostro Paese incompatibile con la sopravvivenza delle imprese di autotrasporto e di logistica".
Le sue conclusioni non mostrano un esito positivo: ""Cercare di arginare il fenomeno della delocalizzazione significherebbe confondere causa con effetto. Gli imprenditori del settore fanno e cercano di fare impresa, e questo non è possibile in un Paese fiscalmente letale che alle tasse somma i danni quotidiani di una struttura operativa anacronistica. E' per questo che, allo stato attuale, non esiste neppure la più lontana speranza di riportare le attività delle azienda a casa".
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