Non è un mistero che l’avvio dei trasporti ferroviari di container tra Cina ed Europa è dovuto in buona parte ai contributi forniti da Pechino agli operatori, nell’ambito della strategia Belt and Road. Questo è un traffico che ha raggiunto nel 2019 i 350mila teu, secondo l’Unione internazionale delle ferrovie Uic, a fronte di un flusso totale di 24 milioni di teu. Ma già alla fine dello scorso anno, le Autorità cinesi avevano deciso di ridurre i contributi con una percentuale variabile dal 20% al 50%, creando preoccupazione tra gli operatori.
Poi la pandemia di Covid-19 ha aperto una parentesi, rilanciando il treno come alternativa soprattutto all’aereo, che soffre di carenza di stiva causata dal fermo di migliaia di aerei passeggeri e dall’aumento della domanda di trasporto di materiale sanitario.
Ma in prospettiva resta la preoccupazione della riduzione dei contributi cinesi, che renderebbe più costoso il treno rispetto alla nave, mentre il rallentamento dell’economia ridurrebbe la necessità di un viaggio più veloce. Per affrontare questa situazione, la Uic ha definito tre scenari fino al 2030, passando dai 450mila teu l’anno in quello più sfavorevole ai due milioni in quello favorevole, con uno scenario mediano di 872mila teu.
Ma per arrivare ai due milioni di teu bisogna trovare alternative ai finanziamenti cinesi. Una potrebbe essere il sostegno finanziario da parte degli stati attraversati dai treni, l’altra la riduzione dei costi tramite la digitalizzazione e l’automazione, accordi amministrativi e doganali.