Il giorno dopo la decisione del Tribunale di Milano d’istituire l’amministrazione giudiziaria di BRT e della filiale italiana di Geodis, sono apparsi in alcuni quotidiani alcuni estratti delle carte dell’indagine, soprattutto per quanto riguarda l’accusa di sfruttamento di facchini e autisti. Alla base dell’indagine penale ci sarebbe una denuncia presentata da una sindacalista della Cgil, secondo cui “tutti gli autisti delle società fornitrici di BRT, anche i cosiddetti padroncini o ibridi (…) dipendono direttamente da BRT”, riporta il Fatto Quotidiano in un articolo del 18 marzo 2023.
La testimonianza della sindacalista prosegue affermando che “ci sono corrieri che lavorano da più di vent’anni presso le filiali BRT, seppure questa circostanza non sia mai stata certificata”. Questi autisti avrebbero dovuto accettare turni massacranti e sarebbero stati retribuiti a cottimo. Addirittura, prosegue la testimonianza, nel caso d’infortuni sul lavoro, l’azienda “evitava di chiamare l’ambulanza” e l'infortunato era portato in ospedale da una persone di fiducia. Scendendo nei particolari, la denuncia rivela che gli addetti non sarebbero stati sottoposti a visite mediche o corsi di formazione e venivano trasferiti tra cooperative, perdendo così scatti di anzianità e altri diritti. Secondo le carte dell’inchiesta, un “caporale di caporali” sceglieva i referenti delle varie cooperative “secondo una base etnica”.
Un capitolo riguarda il sistema di pagamento che, secondo gli inquirenti, avrebbe consentito a BRT di evadere il pagamento di parte dei contributi, con un risparmio valutato in cento milioni di euro. In alcuni casi la retribuzione era formalmente registrata come “trasferta in Italia” e gli autisti erano pagati solo sul numero delle consegne. Si era costituito così, aggiungono gli inquirenti, “un nuovo potere dei processi lavorativi alternativo allo Stato”. Questo sistema era accettato dai lavoratori perché temevano di perdere il lavoro, anche perché sarebbe mancata un’assistenza sindacale “disincentivata nella pratica da BRT”, ha dichiarato la sindacalista. Ciò era facilitato dal fatto che la maggior parte dei dipendenti è immigrata e in stato di difficoltà economica.
La sindacalista ha anche denunciato di avere subito un tentativo di corruzione nel 2021 da parte di un consulente di un consorzio che aveva in appalto servizi di logistica per BRT. Formalmente, la sindacalista era stata convocata per discutere una vertenza per il trasferimento di autisti da Novara a Milano, ma durante l’incontro il consulente avrebbe mostrato una cartellina che conteneva mille euro in contanti. La donna li prese, per poi portarli ai Carabinieri denunciando l’accaduto. “Ritengo che il tentativo di corruzione fosse legato al loro modo di tenere i rapporti con le rappresentanze sindacali che intervengono nel mondo BRT”, ha spiegato la sindacalista, aggiungendo di avere appreso da iscritti che era “piuttosto diffusa” la corruzione tra fornitori, sindacalisti e dipendenti della società.
Il Corriere della Sera, sempre del 28 marzo, riporta alcune considerazioni dei magistrati sulla necessità dell’amministrazione controllata per BRT che, ricordiamo, utilizza oltre 26mila autisti per le consegne. Ed è proprio questo numero elevato che fa affermare agli inquirenti che è sorto un “nuovo potere ufficioso ma molto effettivo, penetrante, opaco e vero regolatore dei processi lavorativo”, dove “le regole statuali a tutela del lavoro vengono sistematicamente pretermesse”. Questo potere funziona grazie a “serbatoi di personale” usati con un sistema di caporalato.
Il punto, sempre secondo i magistrati, non è se i vertici della società ne fossero consapevoli - visto che il meccanismo operava a livello di fornitori esterni di servizi - perché il problema si pone sotto il profilo organizzativo. Quindi, non basta neppure “rimuovere le figure apicali di BRT”, perché ciò lascerebbe inalterata l’organizzazione. Quindi i loro sostituti ”si troverebbero nelle medesime condizioni tossiche dei loro predecessori il sistema illecito sarebbe destinato a perpetuarsi”.
Perciò, l’amministrazione giudiziaria serve per sradicare una “cultura d'impresa” composta da “un insieme di regole, un modo di gestire e condurre l’azienda, un contesto ambientale intessuto di convenzioni anche tacite, radicate all’interno della struttura della persona giuridica, che hanno di fatto favorito la perpetuazione degli illeciti”. Gli inquirenti precisano che “nel corso delle indagini, infatti, si è disvelata una prassi illecita così radicata e collaudata, da poter essere considerata inserita in una più ampia politica d’impresa diretta all’aumento del business”.
Insomma, “le condotte investigate non paiono frutto di iniziative estemporanee ed isolate di singoli, ma di una illecita politica di impresa”. Il provvedimento di amministrazione giudiziaria, termina rilevando che “in questo modo, la costante e sistematica violazione delle regole genera la normalizzazione della devianza, in un contesto dove le irregolarità e le pratiche illecite vengono accettate ed in qualche modo promosse, in quanto considerate normali”.