Da anni è noto che il porto di Gioia Tauro è uno dei punti d’accesso più importanti, non solo in Italia ma anche in Europa, delle sostanze stupefacenti (soprattutto cocaina) provenienti dall’America centrale e meridionale. Un traffico che è controllato dalla ‘ndrangheta. Lo dimostrano i numerosi sequestri di droga nascosta in container sbarcati nel porto calabrese. Un anello fondamentale di questo traffico è il passaggio della droga dai container a depositi nell’entroterra, che richiede la presenza di complici nell’area portuale. In passato erano già stati compiuti arresti in tale direzione, ma l’operazione annunciata il 6 ottobre 2022 dalla Guardia di Finanza appare di livello notevolmente superiore.
La nota della Finanza, infatti, comunica che l’operazione ha coinvolto trecento militi provenienti anche da altre provincie italiane, che hanno arrestato 36 indagati (34 in carcere e due ai domiciliari) accusati di essere coinvolti in un traffico internazionale di sostanze stupefacenti. L’operazione comprende anche il sequestro del patrimonio di due imprese di trasporto, di cui gli inquirenti non precisano il nome, che sarebbero state usate dall’organizzazione criminale per muovere la droga.
Questa è la conclusione di una serie d’indagini di dimensione anche internazionale, che hanno comportato il sequestro di ben quattro tonnellate di cocaina, per un valore al dettaglio di circa 800 milioni di euro. Tale indagine, spiega la Finanza “ha consentito di destrutturare una articolata organizzazione criminale, attiva all’interno dello scalo portuale gioiese, che avrebbe garantito tanto il recupero di ingenti partite di narcotico – giunte a bordo di navi cargo provenienti dal Sudamerica - quanto il successivo stoccaggio presso depositi ritenuti sicuri”.
L’organizzazione operava con i principi di una normale impresa logistica, articolata in tre livelli: esponenti delle principali famiglie di ‘ndrangheta, che garantivano l’importazione della cocaina in arrivo dal Sudamerica; coordinatori delle squadre di portuali che avrebbero retribuito la squadra con una parte della “commissione”, variabile tra il 7 e il 20% del valore del carico, ricevuta dai committenti (le dazioni ricostruite ammonterebbero ad oltre 7 milioni di euro); operatori portuali materialmente incaricati di estrarre la cocaina dal container “contaminato” e procedere all’esfiltrazione dello stesso verso luoghi sicuri.
Gli inquirenti hanno ricostruito la procedura usata dall’organizzazione, definita “ponte”. Quando dal Sudamerica arrivava l’indicazione dei container con la cocaina in arrivo al porto, gli operatori portuali riuscivano a far disporre i container in una posizione predefinita. Quindi interveniva una squadra che prelevava la droga da quel contenitore e lo spostava in un altro, che era poi ritirato da un autotrasportatore compiacente per portarlo in un deposito nell'entroterra controllato dall’organizzazione.
Un elemento importante di questo meccanismo era porre il container sbarcato dalla nave di fronte a quello destinato all’uscita della droga, lasciando tra i due solo la distanza necessaria all’apertura delle porte. Sopra i due era posto un terzo container (il “ponte”), per nascondere completamente il trasferimento della cocaina. I portuali che dovevano compierlo erano portati nella zona dell’operazione nascosti all’interno di un quarto container, adagiato nella medesima fila dei tre interessati al trasbordo.
Per evitare che estranei intralciassero l’operazione, due dei portuali complici parcheggiavano altrettanti straddle carrier ai lati di questa “costruzione” di container, sia per bloccare l’arrivo di estranei, sia per controllare dall’alto l’eventuale arrivo delle Forze dell’Ordine. Dopo il trasbordo della droga, gli operatori chiudevano i container usando sigilli contraffatti. La banda beneficiava anche della complicità di un addetto dell’Ufficio Antifrode dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli di Gioia Tauro, che è stato arrestato.
Questo funzionario avrebbe alterato l’esito della scansione radiogena operata su un container contenente 300 chili di cocaina, oscurando le anomalie e quindi attestando la coerenza della scansione con il carico dichiarato. Per questa operazione, il doganiere avrebbe ricevuto una somma pari al tre percento del valore del carico di droga. Ma questo è solo un aspetto della cura con cui l'organizzazione gestiva la logistica di questo traffico.
Durante le indagini, infatti, gli inquirenti hanno ricostruito la progettazione del trasporto dal Sudamerica alla Calabria di due tonnellate di cocaina. Per eludere i controlli al porto di Gioia Tauro, gli organizzatori avrebbero richiesto ai fornitori colombiani precise modalità di stoccaggio della droga, inviando loro schemi con la distribuzione del carico nel container. Per esempio, avrebbero indicato di nascondere quattro panetti di cocaina in ogni scatola del carico di copertura, che era formato da banane, escludendo però le prime e ultime file, perché maggiormente soggette a ispezioni.