La carenza di microchip per la produzione di autoveicoli (anche quelli commerciali e industriali) proseguirà anche quest’anno, seppure probabilmente con una lieve discesa rispetto al 2021: l’industria automobilistica ha già perso nei primi sei mesi del 2022 una produzione di 1.980.000 autoveicoli per questo motivo, secondo le rilevazioni di AutoForecast Solutions. Di questi, 794.600 non sono usciti dagli stabilimenti europei. Per l’intero anno, la società di ricerca prevede un taglio alla produzione di circa tre milioni di automezzi, di cui un terzo in Europa e altrettanti nelle Americhe. Va meglio la Cina (dove si produce la maggior parte dei microprocessori), che dovrebbe subire nell’intero anno una riduzione di 212mila unità.
Questa previsione indica un miglioramento nella seconda metà dell’anno, ma non bisogna farsi troppe illusioni sul ritorno alla normalità. A maggio, il Ceo d’Intel (uno dei principali produttori mondiali di semiconduttori) Pat Gelsinger ha dichiarato alla catena televisiva statunitense Cnbc che la carenza durerà almeno fino al 2024, mentre in una precedente dichiarazione aveva posto come termine il 2023. Lo stesso orizzonte temporale è previsto dall’altro colosso del settore, Arm.
Il fenomeno è stato scatenato dalla pandemia di Covid-19 e moltiplicato dai forti ritardi nella filiera logistica. Mentre la pandemia non si è esaurita (anzi in Cina ha causato nuovi confinamenti all’inizio dell’anno in aree industriali, con fermi o rallentamenti degli stabilimenti) si è aggiunta la guerra in Ucraina e le relative sanzioni, che stanno causando problemi anche nell’approvvigionamento di materie prime, come palladio e neon.
Infine è apparso un altro elemento moltiplicatore: la carenza di microprocessori ostacola la costruzione degli stessi macchinari che li producono, prolungando i tempi di consegna a due o tre anni. Tutto ciò avviene mentre la domanda sta crescendo e la conseguenza è che bisogna attendere mesi, e perfino un anno, tra l’ordine e il ritiro di un autoveicolo.
Europa e Stati Uniti stanno reagendo riportando la produzione nei loro territori, ma ciò richiede lunghi tempi per realizzare e avviare gli impianti. Non solo: le delocalizzazione in Asia ha disperso le professionalità e le competenze necessarie per impiantare, far funzionare e mantenere queste fabbriche. Per ricostituirle ci vogliono anni di formazione e di pratica, sempre che si trovano lavoratori disposti a farlo. Per attrarli bisognerà offrire remunerazioni molto più elevate di quelle ora fornite ai lavoratori asiatici, aumentando di conseguenza i costi di produzione.
Un cattivo segnale sul rientro della produzione viene dal produttore Tmsc, che ha cercato d’impiantare uno stabilimento di microchip in Arizona. Un progetto rimasto sospeso a causa degli enormi costi (circa dodici miliardi di dollari), nonostante il finanziamento pubblico promesso dal presidente Trump. In Europa, Intel ha finora confermato la volontà d’investire 80 miliardi di euro (di cui 4,5 in Italia) per alcuni impianti di ricerca e produzione da completare in un decennio. Il primo, dal costo di 17 miliardi, sorgerà in Germania.
Intanto, i produttori (non solo di veicoli) cercano soluzioni d’emergenza. Negli Stati Uniti i concessionari vendono autovetture prive di alcune funzioni elettroniche non necessarie (o le implementeranno in un secondo momento); alcune industrie acquisiscono in mercati secondari microprocessori con standard inferiori a quelli normalmente richiesti oppure riscrivono i codice per far compiere a un solo chip il lavoro di due o per usare vecchi chip stoccati in magazzino; intermediari che hanno scorte le vendono con forti sovrapprezzi e c’è perfino che acquista prodotti diversi (come lavatrici) da cui estrarre i microchip per produrre i propri.