La Legge di Bilancio 2025 prevede l’eliminazione dei limiti al pagamento della webtax, ossia l’imposta del 3% sul fatturato (e non sugli utili), delle società che forniscono servizi digitali. Il balzello interessa una vasta platea di attività (me esclude il commercio elettronico), comprese quelle del trasporto e della logistica. Sono coinvolti anche gli editori che pubblicano online e mette a rischio in particolare quelli della stampa specializzata, che spesso sono piccole e medie imprese che subiranno con difficoltà un prelievo del tre percento del loro fatturato. Alcune testate potranno chiudere, altre ridurranno il personale e gli investimenti in contenuti o innovazione. Tutto ciò a vantaggio delle testate straniere, che non dovranno subire questo salasso. Un’idea suicida, quindi, che paradossalmente viene da chi si definisce patriota e che prima di andare al Governo urlava il sostegno alle Pmi contro le multinazionali.
Contro la webtax sono intervenute decine di associazioni di categoria, tra cui quelle che rappresentano la stampa specializzata. L’Anes “esprime sconcerto e grande preoccupazione”, spiegando che “mentre l’intero comparto editoriale versa in una situazione di profonda crisi strutturale e chiede al Governo interventi a sostegno del settore, si propone di estendere la webtax a tutte le imprese che generano ricavi da servizi digitali, inclusa ‘la veicolazione di pubblicità tramite siti-web’, qualunque sia l’attività svolta. Nel caso di testate e di altri prodotti editoriali online, che vivono di pubblicità, basta ospitare una inserzione sul proprio sito per essere soggetti a tassazione. Gli introiti pubblicitari oggetto della webtax, nella misura del 3%, costituiscono la principale, se non l’unica fonte di ricavi degli editori di settore, già soggetti al pagamento delle di imposte ordinarie”.
L’Anes ricorda che “la webtax era stata istituita per ricavare gettito fiscale dai colossi del web, che possono sfuggire a tassazione attraverso un’organizzazione transnazionale. A questo scopo, era stato introdotto un limite minimo di ricavi digitali per l’applicazione dell’imposta pari a 750 milioni di euro a livello globale e di 5,5 milioni in Italia: la ratio della norma era di riequilibrare le condizioni di mercato, in cui convivono editori che operano su base nazionale e colossi multinazionali del web, questi ultimi non sempre soggetti a una effettiva e proporzionata imposizione fiscale in Italia”.
Ora, invece “l’ingiustificato ampliamento dell’applicazione di questo tributo straordinario a tutte le imprese digitali, senza più riferimento al giro d’affari, pare contraria alle intenzioni dichiarate dal legislatore. Gli editori italiani sarebbero infatti soggetti a una doppia e iniqua tassazione che porterebbe, come risultato, all’inasprimento delle disparità economiche rispetto ai grandi operatori del web e all’indebolimento del comparto dell’editoria in Italia, già minato dalla crisi”.
L’altra associazione dei periodici, la Uspi, afferma che “colpire il fatturato vuol dire non avere riguardo al fatto che l’azienda possa essere in utile o in perdita, quindi vuol dire penalizzare le aziende nella loro esistenza, nelle prospettive di crescita anche legate alla possibilità di mantenere posti di lavoro”. La sigla aggiunge che “è appena il caso di rilevare che il settore dell’editoria digitale è l’unico che presenta prospettive di sviluppo anche occupazionali e andarlo a colpire in questo momento vuol dire generare una possibile depressione del mercato con conseguenze che, siamo sicuri, sono lontane dalle intenzioni del Governo”, concludendo rilevando che “questa norma, originariamente nata per colpire gli Over The Top che non pagano le tasse in Italia, verrebbe ad essere ora finalizzata a colpire aziende nazionali e francamente non se ne capisce il motivo”.